Affermare che Marino Piazzolla (1910-1985) è apparso sulla scena letteraria italiana con l’energia di un guastatore, ribadirne l’irriducibilità a un canone o a uno schema culturale precostituito, è una verità indiscutibile e un’ovvietà: di quanti poeti non si è detta la stessa cosa? Anche definirlo un autore di “dimensione europea” ha il suono rugginoso di un’espressione logora.
Si è detto del periodo francese del poeta come di un momento decisivo per la sua formazione intellettuale: era la Parigi degli anni Trenta, fertile degli umori artistici e letterari che sappiamo (Gide e Valéry qualcosa dovevano avergli soffiato nell’immaginazione, nel cuore); ma a volte se ne è parlato con troppa enfasi, quasi a giustificare le incomprensioni, i silenzi catarrosi, i fraintendimenti che la sua opera avrebbe incontrato in patria. Insomma: Piazzolla, impregnato di linfa francese, doveva pagarne lo scotto, così come Ripellino (altro grande escluso dalla piccineria delle accademie) avrebbe scontato la sua adesione spirituale e intellettuale alle letterature slave. Vero, ma solo in parte. Credo che lo scacco inflitto a Piazzolla dalla cosiddetta cultura ufficiale risiedesse soprattutto nella mediocrità di chi, non comprendendo la portata della sua opera, ne parlò a vuoto, e nella grettezza di chi, apprezzandola, non disse nulla, neanche un bo in cui occhieggiasse un dubbio benevolo. Certo, persone più intelligenti di me hanno voluto bene alle Lettere della sposa demente come se ne vuole alle opere fondamentali: non era un amore cieco, ma acceso di filologia e di rigore esegetico; il che rende ancora più fastidioso il silenzio della critica in alta uniforme. Le Lettere della sposa demente: una trama di frammenti epistolari in cui si sostanzia in accenti di drammatico lirismo il sogno-visione di un sussurro di donna, che è nello stesso tempo personaggio e io poetante, portatore del “racconto” per immagini e grumo di delirio bagnato nel sogno terrestre dell’eros, creatura mistica ed eco spogliata della carne. Immagino lo sconcerto dei devoti del paesaggio come riflesso narcisistico dello stato d’animo nel leggere il nitido, terso incipit delle Lettere, pubblicate nel 1952.
In un villaggio delle Fiandre,
Presso un giardino,
Una donna girava per le stanze,
Ferma in un’ora,
Ormai fuori del tempo.
Lassù, dove una quercia si torceva,
Viveva con se stessa, come in sogno.
Non contava i giorni,
Non sapeva gli anni;
Quale ombra fosse chiusa nel suo cuore.
“Cosa c’entrano le Fiandre?”, avranno pensato i fanatici del correlativo oggettivo. “In un villaggio delle Fiandre… Un esordio da racconto fiabesco”. E invece… Invece il senso di novità del poema vive già in questo barbaglio geografico, nel riferimento a un luogo che lascia, è il caso di dirlo, spaesati. Sì, perché la parola Fiandre, che brilla come un tuorlo d’uovo nella neve, nel poema non la incontreremo più. Si è tentati di pensare che il poeta avrebbe potuto dare l’abbrivio all’opera citando qualunque altra regione del mondo, senza che l’arcano del canto ne fosse intaccato. Avrebbe potuto dire: In un villaggio della Bretagna; … della Guascogna; … dell’Andalusia o chissà. Si tratta di un’immagine stilizzata, un segno grafico – nel senso figurativo del termine – che esprime un’idea del paesaggio in antitesi rispetto alla lirica oggettiva, quella che Debenedetti chiamava la poesia relazionale: le Fiandre sono un “nowhere”, avverbio che in inglese significa “in nessun luogo”, ma nello stesso tempo termine scomponibile in: “now” e “here”: “ora” e “qui”, che della parola “composta” sono la negazione concettuale. Nel suono Fiandre si ha la perfetta coincidenza di “nowhere” e “now” “here”: le Fiandre sono, poeticamente, in nessun luogo, ossia nella immaginazione di chi scrive o legge, ma anche, fisicamente, in uno spazio e in un tempo precisi, identificabili in una regione e in un istante. Piazzolla dissolve i termini del rispecchiamento realistico nella trasfigurazione lirica, che assume valore di compendio e di sintesi di oggettivo e soggettivo, materiale e spirituale, naturale e sovrannaturale. L’autenticità poetica dell’immagine è nella coincidenza di trasfigurazione e oggettività del dato materiale, che il poeta nomina perché parla concretamente dell’uomo nella storia, della sua condizione terrena (gioia, dolore, speranza, disperazione, morte, realtà concatenate in un flusso continuo), consentendo al lettore di identificare in una vicenda universale la propria humana condicio. In questa identità degli opposti, il dolore di un individuo finisce per coincidere con il dolore del mondo. La sposa, che nel corso del poema si scompone nella triplice figura, sognata e dolente, dell’amante, dell’amato e della figlia, riassume in sé le caratteristiche peculiari del poeta come archetipo: l’immaginazione, che re-inventa la realtà; la scrittura, che dà un nome alle cose; la memoria, che rischiara il passato. “La poesia è memoria” ha detto Derek Walcott, richiamando, forse inconsapevolmente, un pensiero di Edgar Allan Poe, filtrato da Baudelaire, secondo cui il poeta è “il padrone della memoria, il sovrano delle parole, il registro dei propri sentimenti sempre pronto a lasciarsi sfogliare”: affermazione roboante, ma comprensibile in un uomo dell’Ottocento. Proseguendo nella lettura del poema si è presi nella rete del suo ritmo circolare, la cui litania sacra e pagana gira intorno al nucleo in frantumi del pensiero, secondo un movimento musicale ininterrotto, fitto di parole ricorrenti (il verbo “tremare” è concetto chiave, come “fremere”, in stretto nesso semantico) e immagini guida riferite a fenomeni e forme della natura (il murmure del mare, stilema che si incontra spesso nell’opera del poeta).
Amare è andare in due,
Smarrire il tempo,
Fermarsi dove, eterna,
Soffia la brezza di Dio.
E scoprirsi innocenti
Al tocco delle dita
Che nascono ogni giorno.
La speranza, o meglio l’attesa disperata di un amore che ha i tratti dell’eros terreno, esprime un’ansia di assoluto che rimanda all’itinerarium mentis in Deum dei pensatori e dei mistici medievali, in cui il naufragio dell’essere nella divinità aveva i connotati dell’esperienza totale dei sensi, dell’intelletto e del corpo. È anelito verso un amore eterno e immutabile, ma anche – e qui si potrebbe scomodare Bergson – forza creatrice dello spirito legato alla vita sensuale, perché nulla ci ancora alla terra come la luce di uno sguardo che sia nostro e di nessun altro. Ma l’incanto della sposa, la sua folle attesa vestita di tempo, è lo slancio verso il vuoto di una divinità in ascolto; ricerca dell’amore senza ombre che è dell’amante, forse, o forse di Dio: eros, deus absconditus, ritmo eterno della natura che invita a vivere e a morire nel suo grembo. “Si ha la sensazione che le cose cantate da Piazzolla siano immerse in un’unica dimensione cosmica” ha detto qualcuno. I suoi versi trovano l’argine nella compiutezza di un senso limpido e misterioso, perché rimandano a una realtà vera e presunta, storica e mitica, razionale e alogica. È una parola, la sua, che risuona cristallina come un moto naturale nelle orecchie e nel cuore del lettore.
Lo stesso senso di distanza onirica e di identificazione tra oggettività e altrove lirico in Esilio sull’Himalaya, silloge di poesie che ha l’unità di ispirazione di un poemetto, tanto è coerente nel suo assunto di colloquio dell’io col suo ultimo destino.
Nel 2007 Fermenti ha ripubblicato La bellezza ha i suoi fulmini bianchi, luminoso monstrum poetico, in cui si fondono carnalmente l’aforisma finto sentenzioso, la moralità spicciola, l’epigramma fulminante, l’assolutezza formale della lirica. È un libretto a cui daresti un saluto distratto, se lo incontrassi su una bancarella; una cosa piccina piccina, che non vuole mostrare miracoli. Eppure è il frutto di una pazienza lunga vent’anni: composto, lentamente, dal 1960 al 1980, fu pubblicato con un altro titolo: Parabole dell’angelo di cenere, lo stesso della prima tranche di frammenti nell’edizione attuale; la seconda parte, Confidenze sul viaggio di andata, è un breve zibaldone di pensieri in forma lirica, o liriche in forma pensosa. Un centinaio di pagine, una copertina di cartone azzurra, e dentro un cosmo che esplode sotto vetro. Niente a che vedere con le verità definitive dei grandi moralisti; ma il mondo di un poeta in confidenza con la morte. Tutta l’opera di Piazzolla è visitata dalla commare secca: non un sentimento che si affaccia sulla riva del nulla, in rapporto dialettico con la vita; non un’idea che fa capolino all’ombra di un verso e del suo segreto; ma l’essenza che feconda l’immaginazione e la coscienza. Un pensiero che si fa seme e sangue.
E FATTI APPENA
alcuni passi con un peso d’ombra
verrà il silenzio
sul viale di nessuno
Silenzio. Così Piazzolla chiama la morte: non dice, con enfasi assertiva: Verrà la morte e avrà i tuoi occhi… Non ne ha bisogno: cos’è la morte per un poeta, se non il suo silenzio più riuscito? Non quello che cala tra un verso e l’altro, un respiro e l’altro, un ritmo e l’altro, ma quello senza parole di tutte le morti. Piazzolla aveva cinquant’anni, quando mise mano al suo taccuino di appunti; cinquant’anni, molti dei quali vissuti nell’esilio della speranza. Il “pessimismo (tragi)comico” de I detti immemorabili di Renato Maria Ratti, pubblicati negli anni Sessanta, sembra un colpo di prima intenzione, a spiazzare chi non crede che la scrittura lirica possa essere attraversata dall’ironia. Non è così, per fortuna: la componente ironica, umoristica in senso pirandelliano, della poesia sapienziale di Piazzolla, ne è uno dei tratti distintivi e la si trova anche nei lavori degli ultimi anni (penso a Il pianeta nero, pubblicato poco prima della sua morte), in un impasto di delirio comico-grottesco e consapevolezza tragica, che ha pochi riscontri nella poesia europea. C’è o no chi cade nello sprofondo gridando Geronimoooo? La parola a Ratti-Piazzolla.
Dove sono nato?
Non ve lo dico. Sono!
Sono un settimino clandestino.
Ho due occhi, dieci dita e due piedi.
La bocca saluta il naso
E mi fa compagnia.
Ho duemila capelli
E sul collo due voglie:
Una di latte, l’altra di sangue.
E poi Viaggio nel silenzio di Dio, in cui la parola è una materia calda e magmatica, e il mondo un vivo teatro trafitto dalla luce e da mille ombre; il dio della natura, immanente e trascendente insieme, guarda lo spettacolo della vita e della morte palpitando in silenzio nel cosmo. Ogni frammento del creato è il centro del mondo. Orrore e terrore, grazia e furia in questo poema che celebra l’atto creativo di un dio che tace, ma ha pietà di luce per lo strazio delle sue creature.
Si confronti il silenzio della divinità piazzolliana con Il franco cacciatore di Giorgio Caproni, uno che sull’autore pugliese disse le parole giuste.
Secondo Giuseppe Aventi: “Nel suo proprio immaginario Piazzolla si aggira, va alla ricerca di una sua propria architettura verbale che interpreti poeticamente e teofanicamente l’oscuro e fiammante universo, il grande mondo che sgomentava e stancava la Poesia shakespeariana”. E questo senza ricercare nessun effetto di facile suggestione, nessuna “Arcadia dello stupore”, ma facendo scaturire le parole dalla fonte “naturale” delle proprie convinzioni e del proprio spirito. Se ha ragione Valéry nel dire che “il poeta si conosce dai suoi idoli e dalle sue libertà”, l’originalità di Piazzolla, cioè la sua individualità poetica, è nel non essere il portavoce di una teoria altrui, nell’aderire solo al suo sentimento del tempo e della storia.
Piazzolla è un ammaestratore d’ombre: nella sua capacità di uscire dalla dimensione dell’io che sprofonda in sé stesso, tipica della lirica soggettiva, per restituire al mito la dignità che gli spetta in poesia; nell’individuare la desolazione del proprio tempo tanto nella verità della storia, quanto nella condizione umana; nel suo parlare con la morte – in un colloquio da settimo sigillo -, consapevole che a lei spetta l’ultima parola; nel riconoscere il dio che palpita nel cosmo, sapendolo un dio dell’immanenza, non della provvidenza. Nel rapporto organico, da pifferaio tragico, con l’opera poetica, che si può abbandonare, ma non “compiere” come una prosa, e il cui senso non si esaurisce in ciò che dice, ma in ciò cui allude. Apro il libretto con la copertina azzurra e incontro un frammento in cui è cristallizzata l’idea della morte, che il poeta sente incombere su di sé: è l’auspicio di chi non si rassegna alla totalità del silenzio, a concedere a un altro l’ultima parola, l’ultima mossa sulla scacchiera.
FINALMENTE IMPAZZIRE
a quell’esatto istante
in cui la morte
si arrampica alle vertebre
e riempie gli occhi di buio
Sì, qui Piazzolla chiama la morte col suo nome.
CENNI BIOGRAFICI
Pasquale Piazzolla (Marino è il cognome di sua madre), poeta, prosatore e artista grafico, nasce nel 1910 a San Ferdinando di Puglia. A poco più di vent’anni si trasferisce a Parigi, dove vive la condizione dell’immigrato intellettuale, alternando lavoro (è bibliotecario, poi direttore di una libreria) e studio. Nel 1938 si laurea in Filosofia alla Sorbona, con una tesi sulle poetiche da Aristotele all’abate Brémond. La formazione filosofica del poeta avrà una grande influenza sulla sua concezione del mondo e della scrittura. Negli anni parigini, Piazzolla è in contatto con i maggiori esponenti della cultura francese: Valéry, Eluard, Breton, Sartre. E Gide, che ospita sulla sua rivista Arts et Idées i saggi del giovane scrittore pugliese. Pubblica in Francia le sue prime raccolte di versi: Horizons Perdus e Caravanes: è il 1939, quando ha termine il suo soggiorno parigino. Dopo la fine della guerra si trasferisce a Roma, dove vivrà per quasi quarant’anni.
Conosce Vincenzo Cardarelli, che gli concede uno spazio critico su La Fiera Letteraria. Piazzolla è un intellettuale multiforme: scrive poesie e di poesia, ma è anche un fine critico d’arte e saggista. La schiettezza dei suoi giudizi gli inimicherà la conventicola dei cosiddetti critici militanti, da lui spesso accusati di disonestà intellettuale e ambizione. Nel 1952 pubblica la sua opera più nota, il poema Lettere della sposa demente, rielaborato nel 1960 col titolo Mia figlia è innamorata. Proprio tale volume è causa di un episodio che segnerà nel profondo il poeta, a dimostrazione di quanto la cultura ufficiale fosse ostile a un artista originale e “anarchico” come lui. Citiamo da Testimonianze critiche per Marino Piazzolla poeta (a cura di Velio Carratoni, Fermenti, Roma 2007): «Nel 1960 (Piazzolla) partecipa al prestigioso Premio Viareggio, ottenendo dalla giuria (tra gli altri Repaci, Titta Rosa, Bigiaretti) nove voti su dodici. Ungaretti osteggia in ogni modo la sua vittoria per vendicarsi di una vecchia vicenda (Piazzolla aveva ospitato su La Fiera Letteraria i giudizi mordaci di Gide su alcuni scrittori italiani, tra cui, appunto, Ungaretti, che se l’era presa a morte. N. d. R.).
Su tutte le furie Ungaretti fa inscenare dal fido (sic) Leone Piccioni una violenta polemica», impedendogli così di ottenere un riconoscimento che gli sarebbe valso la consacrazione critica desiderata. Quella di Piazzolla è una personalità sfaccettata: umorale e sanguigno, non può avere rapporti sereni con un ambiente letterario che guarda con sospetto i non allineati. Anche Montale ha modo di sperimentarlo, quando tenta, invano, di imporgli dei tagli alla riedizione delle Lettere della sposa demente. Se Eliot aveva accettato il lavoro “chirurgico” di Pound su La terra desolata, Piazzolla non è disposto a inchinarsi all’autorevolezza del poeta ligure, nei confronti del quale non ha un atteggiamento riverente o sottomesso. Nel 1965 inizia la pubblicazione de I detti immemorabili di R. M. Ratti, opera intrisa di umorismo grottesco, in cui il poeta dà voce a una sorta di eteronimo, mascheramento dell’anima in ombra del poeta. Due anni dopo accetta la direzione della rivista umoristica L’idiota. La componente ironica – in senso pirandelliano – del suo impegno letterario si fa sempre più forte col passare degli anni: a loro modo ne sono attraversate anche le Parabole dell’angelo di cenere (Fermenti, Roma 1980), insolita mescolanza di scrittura lirica e sapienziale, di poesia e moralità fulminante. Nel 1978 la radio francese trasmette una conversazione col poeta, indicato come una fra le personalità di spicco della cultura europea del secolo. Nonostante l’ostilità delle consorterie accademiche, Piazzolla è stato apprezzato e stimato da alcune tra le intelligenze più vive del Novecento: Govoni, Caproni, Bo, Frattini, Aventi, Bellezza e altri.
Marino Piazzolla muore a Roma nel 1985. Il giorno dopo la sua scomparsa esce, per i tipi di Fermenti, Il Pianeta Nero, a cura di Velio Carratoni, che tuttora dirige la Fondazione creata a nome del poeta, per diffonderne il lascito culturale. L’opera di Piazzolla è sterminata: decine di volumi pubblicati, tra poesia, narrativa e saggi critici.
Raccolte poetiche come Esilio sull’Himalaya (Edizioni del Canzoniere, Roma 1953), Viaggio nel silenzio di Dio (Ippogrifo, Roma 1973) e Sugli occhi e per sempre (Fermenti, Roma 2003) sono state considerate, da critici e poeti di rilievo, tra le più luminose della letteratura italiana del secondo Novecento.
Per approfondimenti sulla figura di Marino Piazzolla, di cui quest’anno ricorre il centenario della nascita, vi rimando al sito:
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