Pubblicato da: piccolochandler | gennaio 3, 2015

Un po’ di fango

Non ho mai posseduto né guidato un’auto; perciò la città l’ho sempre percorsa a piedi. L’ho camminata tutta. Non che ci voglia molto, ché San Severo non è Città del Messico, ma per anni i miei amici mi hanno considerato una specie di marciatore nottambulo votato al pericolo, per il solo fatto di coprire a piedi il tragitto dalla vecchia periferia al centro. Quindici minuti. Quindici minuti a passo svelto, diciassette, diciotto al massimo, se non ho fretta di arrivare. Un quarto d’ora all’andata; lo stesso tempo al ritorno, anche a notte fonda, con la papagna che avvolge tutto, chiese, panchine, russatori e amanti pigri. I cani no, quelli la notte sono svegli e mi accompagnano volentieri. “Dove abiti? In via Alessandrini?! E ci vai appiedi? Uh, come fai? Non c’hai paura?” mi chiedevano, soprattutto le ragazze a cui non potevo dare un passaggio con la Torpedo che non avevo. “Ci vado appiedi, sì, e no, non c’ho paura”. Non voglio fare la retorica dell’antiretorica, per ribaltare il luogo comune della città (del paese, fate voi) che di notte s’incarognisce, diventa ladra e balorda e tende agguati. Non voglio dire che il luogo in cui vivo sia il più sicuro del mondo, sebbene nessuno mi abbia mai aggredito, uomo o cane che sia; né fare l’elogio stanco della lentezza, che tutto ti regala come una scoperta. Dico che mi sono accorto di vivere in periferia solo quando me l’hanno fatto notare. Il centro storico era quello in cui arrivavo per incontrare gli amici disposti a marciare con me. Ho camminato tanto, con lo sguardo a terra, per la paura di inciampare, guardandomi poco intorno. Per anni ho confuso i nomi delle chiese, quasi vantandomi di conoscere meglio quelle di Firenze. Più che uno snob, ero un idiota: essere ignoranti è lecito, gloriarsene è da imbecilli. Non scantono dal tema, ma è l’argomento che mi sta più a cuore: camminare e non saper guardare. È stato un problema per molto tempo. Poi ho imparato a riconoscere gli edifici, le strade, le insegne luminose. Fino al 1983 ho vissuto in un rione centrale o quasi. Dal balcone del salotto potevo vedere, oltre la terrazza della casa di fronte, gli alberi della villa comunale. Mio padre ci portava lì la domenica, me e mia sorella, e ci scattava decine di foto. Le faceva anche alle aiuole e alle piante. Qualcuno ci scambiava per turisti, e in un certo senso lo eravamo. “Viviamo qui, ma siamo lucani” chiarivamo. Il curioso di turno non rispondeva “chissenefrega” per cortesia, ma la sua delusione era evidente. Poi mi sono trasferito in un quartiere periferico. A dirla tutta, aldilà di tre, quattro palazzi di sei piani allineati lungo la strada, si trattava di una propaggine della campagna, un enorme slargo di fango e sterpaglie. Ricordo anche una piccola masseria sciancata, con le mucche e qualche cane (e dai) che mi abbaiava incazzato la mattina. Per andare a scuola (che distava due chilometri due) dovevo attraversare il passaggio fangoso e inevitabilmente, specie se era piovuto, la melma mi entrava nelle scarpe. Sotto il banco avevo sempre il mio pantano da asporto personale, di cui mi vergognavo tanto e che il professore notava prima dell’appello. Non dovevo neanche giustificarmi; lo faceva il mio compagno di banco, che forse si vergognava più di me. “Niente, sono i fanghi (sic) di Mancuso”. E lì arrossivo, come se quel fango, che avevo cercato di nascondere con le suole e col pensiero, lo avessi prodotto io. Quello è stato il momento in cui ho avvertito la differenza tra abitare nel cuore della città e vivere ai “margini”. Allora arrivare in centro era un’avventura fisica, non mentale; quei due chilometri, una prova da superare con lo zaino in spalla, e io un pellegrino che non sapeva i nomi delle chiese. N.B. Degli anni in cui vivevo in campagna mio malgrado, ho nostalgia, ma solo perché avevo tredici anni e non dovevo giustificare la mia ignoranza.

“Quaderni dell’Orsa”, dicembre 2014.


Risposte

  1. Letto tutto d’un fiato….mi sembrava di essere TE ! Ho il pessimo gusto di immedesimarmi nei protagonisti quandola “storia” è scritta bene. A la prochaine, mon Ami !


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