Pubblicato da: piccolochandler | marzo 2, 2024

Il talento degli accattoni

Il loro mestiere è un bersaglio facile per chi si suda lo stipendio, e anche per chi non se lo suda. “Guadagnati il pane, bastardo!” è il pensiero meno velenoso che esca di bocca agli intransigenti di ogni marca, lavoratori tristi e allegri sfaccendati. Capita la stessa cosa con i preti che toccano le donne: fanno schifo anche ai maniaci sessuali che non dicono messa, sposatissimi e dal sonno profondo, al riparo dai rimorsi. Una verità è innegabile: il lavoro dell’accattone richiede disciplina. Ne ho visto uno che a dicembre indossava un vestito di carta azzurra. Era l’imitazione precisa di un completo, con il bavero della giacca smangiato sugli orli, le asole tagliate col temperino e i bottoni di stagnola tenuti insieme da fili di ferro. I pantaloni avevano una pieghetta sulle caviglie. Dalla tasca destra della giacca spuntava un’edizione tascabile di La via del samurai. Non si poteva dire un vero mendicante, perché non sembrava chiedere soldi o altro. Sonnecchiava seduto sui basoli di un marciapiede, appoggiato con la schiena alla facciata di un palazzo di fine Ottocento. La sede delle Assicurazioni Generali. Ne ho visto un altro che chiedeva l’elemosina sotto la pioggia, da cui si riparava – mica era scemo – stringendo in mano un ombrello sforacchiato. Non era un’immagine pietosa, ma quella di chi si applicava al lavoro con composta efficienza, senza enfasi. A Potenza, davanti all’ingresso di un supermercato, un africano di mezza età vendeva accendini a mille lire. Non li comprava nessuno, ma lui senza scoraggiarsi continuava la giaculatoria: “Millleliremilleliremillelire”. Lo avresti preso a calci per farlo smettere, o gli avresti comprato tutti gli accendini. Ma così gli avresti tolto il lavoro, perché pareva dominare quello spazio rumoroso solo per il piacere di dare fastidio al mondo (o almeno ai clienti del supermercato). Alla stazione di Campobasso potevi incontrare un vecchio calvo con le tasche gonfie non si sa di che cosa. Fazzoletti sporchi? Caldarroste? I maligni, prevedibili, parlavano di banconote arrotolate. I più delicati confermavano la storia delle banconote, precisando però che erano fuori corso da trent’anni; cartaccia residua di un’eredità che aveva ricevuto troppo tardi, perché il parente milionario aveva sotterrato il denaro nell’orto. Il vecchio vagava per la stazione, chiedendo soldi a tutti. Ovvio, un movimento naturale del mestiere. Era il climax che stupiva. Di solito, in una qualsiasi trattativa le richieste decrescono a ogni no: si chiede mille, per arrivare a dieci. “Hai mille lire? Neanche cinquecento? Neanche cento, cinquanta, venti, dieci?”. Lui faceva il contrario: partiva da dieci per arrivare a mille. La tecnica insolita disorientava l’interlocutore che, se poteva negare di avere spiccioli in tasca, non poteva negare di avere almeno una banconota nel portafogli: come avrebbe comprato il biglietto del treno? “Hai dieci lire? Neanche cinquanta? E cinquecento? E mille?”. Il suo stupore dopo il no metteva il taccagno al muro. Almeno questo è successo a me, quando è stato il mio turno. Dopo che gli avevo negato le sue legittime mille lire, il vecchio riconobbe il segnale della mia disonestà. Un segnale fisico: una vampata di rossore, un tremolio della palpebra. Emise uno strano verso, tra il guaito e il gemito del nonno in agonia. Gli diedi una banconota da diecimila lire e scappai, insultandolo a sangue. Un signore in abito beige che somigliava a Max von Sydow, non si sapeva da dove venisse: qualcuno diceva che era argentino, qualcun altro austriaco o polacco. Il suo accento era indefinibile. Dicevano che era stato ricco, e che aveva perso tutto giocando a poker. Ma questo lo dicevano anche di altri che ricchi non erano mai stati. Non mancavano le storie minuziose. La più verosimile, parlava di un uruguagio di origini tedesche, direttore di una filiale del Banco Hipotecario del Uruguay, impazzito dopo lo scandalo che lo aveva travolto per aver negato un prestito a qualcuno. Qualcuno che poi si sarebbe ucciso, lasciando un biglietto di addio in sé banale, ma corredato di un’accusa verso chi aveva messo il timbro sulla sua rovina. Il funzionario ne pagò tutte le conseguenze: dovette risarcire personalmente i familiari del suicida, che gli avevano fatto causa. L’esaurimento nervoso fu per lui una grazia. Dopo una lunga cura, si riprese. Venne in Italia per un periodo di riposo, ma sulla spiaggia di Vieste ebbe una ricaduta. Fu avvicinato da un venditore ambulante, cioè un accattone, a cui rispose di non potergli dare soldi, non essendo lui il proprietario della banca, ma solo un impiegato.

“Neanche un’offerta a piacere vostro?”, insistette l’altro.

Il direttore impazzì di nuovo, e stavolta non sarebbe guarito. La famiglia gli trovò un alloggio a San Severo, per non affaticarlo con un viaggio transoceanico; o forse per liberarsi di lui. La leggenda uruguaiana era così dettagliata che sembrava plausibile. I dettagli però erano troppi, e troppo esatti.

Certo un mendicante tanto signorile non l’avevo mai visto. Pare che il completo beige che lo distingueva nelle sue questue per le vie del paese, fosse quello che portava tutti i giorni in ufficio. Lo vedevi camminare lento e imbambolato, lungo come un pioppo gambuto. Chiedeva monete con un tono di cortese distacco, in un italiano appena macchiato da un accento straniero. Non accettava banconote. Solo monete. Un pomeriggio ero seduto con due amici su una panchina del parco; lui ci passò davanti. Ci chiese una moneta.

“A piacere vostro…”.

Io gliela diedi, non per bontà, ma perché il suo sguardo mi intimidiva: aveva negli occhi il lampo buio del professore a riposo. Si mise la moneta in tasca e avvicinò il suo volto al mio. Furono due secondi quasi di paura. Mi diede un bacio sulla guancia e se ne andò, senza dire una parola. Non l’ho più rivisto. Il suo sguardo e il suo accento potevano abbracciare tutte le identità che racconti più meno coerenti, più o meno originali, gli avevano attribuito.

Nell’estate del 1984, Sergio D. era bagnino al Lido Gabbiano di Rodi Garganico. (Non sapeva nuotare, ma doveva pagarsi gli studi.) Sergio non nuotava, però aveva buona memoria. Non avrebbe dimenticato l’incontro con un signore dai modi gentili, che chiedeva l’elemosina ai bagnanti. Sergio gli diede cinquanta lire e l’uomo lo ringraziò con un bacio sulla guancia. Sotto il sole di ferragosto, indossava un completo di lino beige. Era straniero, forse scandinavo. Parlava parecchie lingue. Dicevano che faceva l’attore e che aveva avuto un esaurimento mentre girava un film in Italia. L’anno dopo uscì nelle sale Il pentito di Pasquale Squitieri. Sergio ne era sicuro: il lungone che interpretava il banchiere Mario Spinola (sosia in maschera di Michele Sindona) lui lo conosceva. Gli aveva pure prestato dei soldi.














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